di Marina La Barbera
Gli abbigliamenti usati tradizionalmente in molte regioni costituiscono uno dei lati più appariscenti del folclore, ma anche uno dei più difficili da interpretare.
Come scrive Antonino Buttitta “una delle ragioni della difficoltà di tracciare una carta crono-topografica degli elementi e dei tipi del costume popolare è il fatto che essi sono una forma complessa e composita, essendo in parte derivazioni, volgarizzatesi, di abbigliamenti già largamente usati o diffusi nelle grandi capitali della moda. Nel loro itinerario storico sono andati poi di volta in volta contaminandosi con forme arcaiche già esistenti, anche per il fatto di essere eseguiti dai loro stessi proprietari e in loco”[1].
Il costume tradizionale femminile, come la lingua e il rito, è uno dei segni più evidenti della diversità culturale degli arbëreshë; è una singolare espressione di autocoscienza locale che manifesta anche in questo modo la volontà di conservare identità e tradizioni.
L’abbigliamento, proprio per la sua immediata visibilità, è sempre stato lo strumento più adatto alla trasmissione di messaggi la “cui decodificazione conduce all’inconscio collettivo della gente che ha bisogno di essere assicurata sul proprio ruolo e alle molteplici funzioni e valenze socio-politiche, magico-religiose e sessuali”[2].
Un corpo rivestito non è semplicemente e fisicamente solo ricoperto, ma è un corpo che emana informazioni da ogni sua parte, comunica con il mondo circostante attraverso ogni minimo accessorio o particolare ornamento[3].
Roland Barthes ha affermato che la moda “è interamente un sistema di segni”[4], il vestito è, quindi, oggetto e segno contemporaneamente.
Come ha sottolineato Cristina Giorgetti, se si condivide l’affermazione di Charles Morris e cioè che “la civiltà umana riposa su segni e su sistemi di segni, e non si può parlare della mente umana senza riferirsi al funzionamento di segni” è da confermare la teoria di Barthes che ha steso il campo di questa disciplina a tutti i fatti significanti, tra i quali a pieno titolo entra la moda[5].
Partendo dagli studi e dalle intuizioni di de Saussure[6], Barthes arriva alla conclusione “che il linguaggio, così come il vestito, è al contempo sistema e storia, atto individuale e istituzione collettiva”[7], quindi è langue e parole.
Antonino Buttitta conferma che “ogni fatto di cultura appartiene all’universo della comunicazione: o perché consapevolmente prodotto per comunicare, o perché il suo uso è in funzione di ciò che esso riesce a comunicare. La cultura pertanto è governata dalle stesse leggi che regolano il linguaggio e ogni prodotto culturale fa un discorso: è un messaggio. Ogni fatto di comunicazione (a parte il codice e il contesto) comporta un destinatore, un canale, un messaggio, un destinatario. È il luogo dove questi diversi elementi si incontrano, producendo il discorso”[8].
“Un abito è storia oggettivata e visibile. È testimonianza della condizione dei processi produttivi e degli scambi commerciali connessi a tali processi per l’aspetto che concerne le materie prime usate. È documento del gusto estetico di una determinata epoca e di determinate società. È una rappresentazione visiva delle stratificazioni sociali e delle articolazioni professionali di ciascuna collettività. È soprattutto, per quanto connesso alla protezione del corpo dalle intemperie, dunque a un fatto sommamente naturale, un dispositivo produttore di tratti simbolici in cui si materializzano e attraverso cui si veicolano valori e messaggi che implodono interi universi ideologici”[9].
Gli abiti tradizionali di Piana degli Albanesi sono ormai sempre più lontani dalla loro destinazione originaria avendo perso il legame con gli eventi. Non sono più abiti ma costumi e sono diventati strumenti di identificazione che assolvono quasi esclusivamente a funzioni simboliche.
Barthes scrive: “Riguardo al vestito sembra estremamente utile distinguere una realtà che proponiamo di chiamare “costume”, corrispondente alla langue di Saussure e una seconda realtà, che proponiamo di chiamare “abbigliamento”, corrispondente alla parola di Saussure. La prima è una realtà istituzionale, essenzialmente sociale, indipendente dall’individuo, una sorta di riserva sistematica, normativa, all’interno della quale il singolo organizza la propria tenuta; la seconda è una realtà individuale, vero e proprio atto del “vestirsi”, attraverso il quale l’individuo attualizza su di sé l’istituzione generale del costume”[10].
Nel 1937 Pëtr Bogatyrëv pubblica un saggio dal titolo Le funzioni dell’abbigliamento popolare nella Slovacchia morava. In questo egli afferma che “il costume popolare è sotto molti punti di vista l’esatto opposto del vestito che segue la moda. Una delle principali tendenze nell’abito alla moda è quella di cambiare rapidamente al fine di non somigliare a quello che lo ha preceduto. La tendenza del costume popolare è quella di restare immutabile, i nipoti devono indossare lo stesso abito dei nonni. Sto qui parlando delle tendenze generali dell’abito alla moda e del costume popolare. In realtà sappiamo che il costume non è immutabile e che anch’esso raccoglie elementi alla moda. Una seconda differenza fondamentale tra il costume popolare e l’abbigliamento alla moda è la seguente: il costume popolare è sottoposto alla censura della comunità, che prescrive ciò che di esso si può e ciò che non si può modificare. L’abbigliamento alla moda dipende dai vari sarti che lo creano…Parliamo tuttavia solo di tendenze. Infatti, nella realtà anche il costume popolare si modifica sotto l’influenza della moda e dei suoi creatori e anche la moda deve tener presente la censura della comunità”[11].
Le funzioni a cui assolve il costume popolare, secondo Bogatyrëv, sono molteplici: pratica, estetica, magica, regionale. Inoltre esso serve ad indicare il ceto, il sesso, l’età, la classe, il lavoro, il lutto, l’appartenenza ad una confessione religiosa ed anche se una persona sia nubile o sposata[12]. “Se vogliamo capire la funzione sociale degli abiti dobbiamo imparare a leggere questi segni (gli abiti), così come impariamo a leggere e a capire lingue diverse”[13].
La gran parte della produzione dei manufatti è dovuta storicamente ad un artigianato domestico che impiegava, quasi esclusivamente, manodopera femminile. Le donne, avviate a questa attività fin dall’infanzia, raggiungevano gradualmente una perizia tecnica che consentiva loro di provvedere direttamente alla preparazione del corredo.
Buttitta sottolinea che “la persistenza dell’uso del costume, e quindi la sua conservazione, è un fatto di attardamento ed insieme affermazione di orgoglio e di valori locali; può quindi dare origine a importanti sviluppi autonomi. I costumi migliori sono indubbiamente il prodotto di tale sentimento da parte dell’intera collettività. È straordinario infatti come, nonostante l’elementarietà dei capi di abbigliamento e la povertà delle materie prime con cui sono fabbricati, l’estro degli abitanti di regioni anche impervie e isolate sia riuscito, attraverso mille variazioni nel taglio e nei colori delle stoffe, a creare tipi inconfondibili e fra loro diversissimi, in base a particolari predilezioni per certe soluzioni coloristiche e compositive, man mano affinate, in senso collettivo, fino a trasformarsi in un artigianato superiore, che impegna le attitudini creative specialmente delle donne”[14].
Rosario La Duca precisa che “in passato, soltanto pochi scienziati della levatura di un Giuseppe Pitrè intuirono l’enorme importanza del raccogliere e conservare anche umili oggetti, che allora nessuno avrebbe mai ammesso in un museo, per formarne invece collezioni che oggi costituiscono insostituibili documenti”[15].
Il Pitrè aveva dimostrato un’attenzione particolare agli abiti e ai costumi del popolo in occasione dell’Esposizione Industriale di Milano del 1881. La città di Palermo partecipò alla mostra etnografica – la prima in Italia – con “qualche costume dell’isola e […] attrezzi e utensili della vita domestica […] acconci a rappresentare […] le fogge di vestire e la maniera di vivere del popolo siciliano”[16].
In questa occasione fu nominata dal sindaco un’apposita Commissione composta, tra gli altri, dal Salomone Marino e dal Pitrè, che presentarono anche alcuni costumi siciliani, tra cui il costume di gran festa e di mezza festa delle donne albanesi di Piana dei Greci, ottenuti in prestito con difficoltà grazie all’intervento del sindaco del paese[17].
Dieci anni dopo, in occasione dell’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-1892, fu allestita dal Pitrè la Mostra etnografica siciliana, attraverso la quale veniva mostrata una Sicilia a rischio di estinzione a causa del progresso incalzante. Progresso che secondo il Salomone Marino era “…benefico per la scienza avanza inarrestabile […] cancellando usanze, credenze, pratiche e ‘le differenze di nazione, di classe, di individuo’[18].
Con questa esposizione hanno inizio lo studio della cultura materiale e la museografia etnoantropologica[19].
Lo stesso Pitrè, il 15 maggio del 1892, scrive: “…un fatto che poi non sfuggirà alle persone intelligenti è il non iscarso materiale, qui messo in evidenza, delle colonie albanesi, lombarde e galloitaliche di Sicilia […]. La classificazione, se per le esigenze del padiglione etnografico non è strettamente scientifica; è nondimeno tale da non scontentare chi cerchi le manifestazioni più importanti e più curiose della vita fisica e psichica di questo popolo; il quale per le dominazioni che ha, non sempre docilmente, sopportate, e per molte ragioni etniche che ora sarebbe inopportuno il ricordare, offre singolare interesse allo storico, siccome presenta gravissime difficoltà all’etnografo che non abbia familiarità con tutto ciò che è siciliano o di Sicilia”[20].
Le principali fonti per studiare l’allestimento della mostra etnografica sono il catalogo speciale della Mostra Etnografica Siciliana (1892) nel quale sono descritti i singoli oggetti corredati da disegni eseguiti da Aleardo Terzi[21] e due periodici editi in occasione della mostra: Palermo e l’Esposizione Nazionale dal 1891-92, l’Esposizione Nazionale di Palermo 1891-92[22].
Si è già detto che gli abiti di Piana si sono trasformati in costumi, veri e propri strumenti di identificazione e che vengono indossati solo in alcune occasioni: il giorno delle nozze, la Settimana Santa e in altre poche cerimonie religiose e festive.[23]
La gran parte della loro produzione è dovuta ad un artigianato di tipo domestico ma, successivamente nel XVIII secolo, le suore del Collegio di Maria di Piana degli Albanesi, specialiste nel ricamare l’oro, fondano una vera e propria scuola di ricamo.
In più di cinque secoli il costume ha risentito di diverse influenze e trasformazioni che rendono difficile la ricostruzione del percorso evolutivo e, quindi, delle origini.
Il costume arbëreshë è tipico degli albanesi che si sono rifugiati in Italia in seguito alle oppressioni turche tra il XV e il XVI secolo e subisce l’influsso orientale e bizantino, come emerge dall’uso dei colori accesi, dall’ampio drappeggio, dalle maniche lunghe e larghe che sono espressione di un modo di abbigliarsi più rilassato e morbido[24], dalle stoffe preziose ricamate di seta, oro e argento.
Dal XV secolo gli abiti albanesi cominciano ad essere influenzati anche da fogge occidentali. Le maniche attaccate al corpetto tramite laccetti che lasciano sbuffare ai lati la camicia sono quelle indossate dalle donne italiane nel XVI secolo. Con il progredire del Quattrocento, infatti, la manica è, quasi sempre, staccata e congiunta alla veste per mezzo di lacci finiti con puntali preziosi, detti aghetti o agugielli, che lasciano “sboffare” tra l’uno e l’altro la camicia. L’usanza degli spacchi, nata dalla necessità pratica di impedire che la manica si strappi al gomito, acquista, così, un valore eminentemente decorativo[25].
Bisogna precisare che l’abito femminile tradizionale si è conservato, al contrario, quello maschile è caduto in disuso.
Andrea D’Antoni (1811-1868), pittore dell’Ottocento siciliano, si raffigura in costume di esule albanese in un ritratto di collezione privata di Palermo in ricordo dell’esilio a Malta suo e di diversi componenti della sua famiglia dopo il 1848[26].
L’abito albanese originale poco differisce da quelli delle altre regioni balcaniche e risente dell’influenza dell’abbigliamento turco.
Il costume raffigurato nel dipinto richiama quello dei Toschi dell’Albania che portano sopra i calzoni un gonnellino bianco pieghettato, detto fustan[27].
Dopo gli anni ’50 del Novecento furono creati una quindicina di costumi maschili di ispirazione balcanica che vengono indossati per gli appuntamenti turistici più importanti.
Una classificazione degli abiti può essere fatta tenendo conto della loro destinazione d’uso.
I tessuti utilizzati per gli abiti invernali sono panno, lana e velluto e hanno colori meno accesi, spesso si usa il nero; gli abiti estivi hanno, invece, un’accesa policromia, soprattutto utilizzano il rosso, e sono realizzati con seta, taffetas, raso, crèpe georgette, cotone.
Il Pitrè, in occasione della Mostra Etnografica all’Esposizione del 1891-1892, aveva elencato le parti del “costume di gran festa delle donne siculo-albanesi” e scrive: “Questi costumi si indossano nelle maggiori solennità, più che nelle altre colonie albanesi di Contessa, S. Cristina e Palazzo Adriano, in quella di Piana dei Greci […]. Questi costumi sono di grande spesa, e non si fanno da chicchessia, né si rifanno facilmente; anzi l’uso comincia ad esserne limitato a sole poche persone, a certe feste ed alle nozze. Le famiglie che li hanno li guardano scrupolosamente”[28].
Rispetto al costume popolare quotidiano, il costume tradizionale albanese ha sempre attirato l’interesse e l’ammirazione di artisti, viaggiatori, studiosi. Bernardy sottolinea come “il ricco costume albanese svolge ricordi e motivi cinquecenteschi su fondamenti orientaleggianti, armonizza ornati ecclesiastici con gioiellature bizantine, colori floreali con rigidità gemmee”[29].
Il Vuillier di fronte ad una sposa di Piana degli Albanesi scrive: “ …est trés belle dans son costume ancien, c’est une reine magnifique qui s’avance”[30].
L’accompagnatore di Vuillier gli spiega poi che: “…la plupart de ces vêtements on été transmis de pére en fils, ils sont religieusement conservés dans les familles; il en est ont déjà servi à bien des générations”[31].
L’abito della festa, le cui parti vengono elencate dal Pitrè[32], veniva tradizionalmente indossato nelle ricorrenze più importanti (S. Giorgio, Vergine Odigitria, S. Demetrio), nei battesimi e nei matrimoni.
Si compone di una gonna di seta rossa arricciata in vita, di cui si hanno due versioni: ncilona, ricamata diffusamente in oro con motivi floreali, e xhëllona me kurorë, adornata a partire dall’orlo con fasce d’oro (kurorë) o d’argento lavorate a fusello, cioè tombolo a filo d’oro, la lavorazione delle fasce riprende una tecnica artigianale, applicata al cotone, ampiamente diffusa in Sicilia. La seta, il velluto e l’oro vengono trasformati in fili, lenticciole e in canutiglie.
Un dipinto di Giuseppe Salerno del 1625, raffigurante la Sacra Famiglia con S. Giovannino, della Chiesa Madre di Polizzi Generosa e proveniente dalla sagrestia della Chiesa di S. Maria delle Grazie, rappresenta la Madonna alle prese con trine e fuselli nella lavorazione al tombolo, chiaro richiamo alla radicata tradizione del ricamo nelle Madonie e soprattutto negli ambienti monastici femminili in tutta la Sicilia[33].
Il numero delle fasce della gonna varia da uno a tre a seconda della funzione d’uso.
La tradizione orale riporta che la gonna con una fascia veniva indossata per le funzioni religiose giornaliere e in altri momenti della giornata riguardanti lo svolgimento di doveri sociali, quella a due fasce per la messa domenicale e quella a tre per cerimonie ancora più importanti come la festa di S. Giorgio, patrono di Piana degli Albanesi.
Le altre componenti dell’abito sono il grembiule nero o bleu in pizzo o in rete (vanterja), il busto (çerri); la camicia di lino bianco (linja).
La camicia, confezionata in pesante tela di lino, presenta caratteristiche maniche, da annodare posteriormente, e ampio collo. È anche nota con il nome di levantina ed è indossata, generalmente, dalle donne più giovani per la sua linea moderna. La preziosa ornamentazione veniva effettuata sulle singole parti del capo, prima che venisse assemblato. Essa consiste in motivi a ricamo con evidente contenuto simbolico, oltre a lavori di sfilato e bordure eseguite al tombolo[34].
Seguono poi il corpetto (krahët) rosso ricamato in oro senza maniche o il giubbino (xhipuni). La parte superiore del seno era coperta dal merletto (petini), il costume da festa comprendeva poi la mantellina (mandilina) di seta azzurra o bianca con l’orlo ricamato in oro, un certo numero di fiocchi (shkokat) il cui numero di petali varia a seconda della collocazione. Si distinguono il fiocco del capo (shkoka te kryet), il fiocco anteriore (shkoka përpara) e il fiocco posteriore (shkoka prapa).
Le donne sposate possedevano anche una versione invernale di quest’abito composto principalmente da un’ampia gonna di panno nero, il giubbino (xhipuni) con collare e polsini (pucet) ricamati in oro a punto pieno, una mantellina bianca con un fiocco per il capo. Uno degli accessori principali del costume di festa è costituito da una cintura, chiamata brezi formata da placche unite al centro da una borchia cesellata a mano raffigurante soggetti di carattere religioso, soprattutto santi della tradizione orientale e protettori di Piana, come S. Giorgio che uccide il drago, S. Demetrio, la Vergine Odigitria, S. Vito, l’Immacolata[35].
Pitrè sottolinea: “…il cinto suol rappresentare, nel mezzo, ora la Vergine, ora S. Nicolò arcivescovo di Mira e patrono delle Colonie Albanesi, ora S. Giorgio, ora la Madonna dell’Odighitria, tutelari della Piana, ed ora altro patrono del costume italo-albanesi”[36].
In albanese brez significa generazione, stirpe, discendenza, progenie; la cintura è, quindi, simbolo di maternità.
Il brezi, infatti, veniva donato alla futura sposa alcuni giorni prima delle nozze in occasione dell’esposizione della dote o di solenni festività, per augurarle fecondità.
“Il dono del brezi da parte del fidanzato alla futura sposa – che lo indosserà per la prima volta durante la cerimonia di nozze – conclude la teoria degli xénia nuziali e, oltre che propiziare fecondità, allude alle corone che ai due verranno poste e scambiate sul capo durante il rito religioso, detto, appunto, dell’incoronazione”[37].
Le cinture sono realizzate ad altissimo rilievo o a tutto tondo, con alcune parti mobili, nel caso di San Giorgio, la lancia è quasi sempre estraibile.
Un bellissimo esempio di questa tipologia di accessorio è dato dalla cintura del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, già nella raccolta Merlo di Piana dei Greci. Il pezzo è in argento realizzato in fusione e forma tredici elementi rettangolari con al centro un bottone in rilievo a forma di sole. I rettangoli sono agganciati l’uno all’altro con anelli decorati da un fiore traforato. Al centro vi è una placca con parti mobili formata da uno stemma con altorilievo che raffigura San Giorgio nell’atto di uccidere il drago, contornato da angeli. In alto una corona sormonta la raffigurazione del santo e un sole inciso[38].
“Il brez-i con il S. Giorgio del Museo romano, oltre alla pregevolezza della fattura – in argento senza alcuna doratura – attinge il punto più alto di autocoscienza della nazione albanese trapiantata in Italia. Il sole raggiato…che appare nella placca centrale e si ripete in ogni segmento della cintura è infatti il dio precristiano degli illiri. S. Giorgio è invece il nume tutelare degli Arbërori cristiani, ancor oggi festeggiato il 6 maggio dagli albanesi di Kosova divenuti musulmani, ed è legato alla figura dell’eroe Scanderbeg”[39].
Questa cintura si può confrontare con una cintura studiata da Maria Concetta Di Natale di collezione privata di Marsala. L’opera è in argento smaltato e cesellato, reca lo stemma di Palermo e l’aquila a volo basso, le iniziali del console GL ed è del 1711; è composta da tredici elementi “decorati con un ricco gusto barocco”, in ogni elemento è raffigurata una scena relativa alla vita di Gesù e Maria[40].
Di grande interesse è anche una placca raffigurante San Giorgio, sempre di collezione privata di Marsala. Nella parte superiore della placca vi sono due puttini alati che reggono una corona e in basso due musicanti; la figura di San Giorgio che uccide il drago è racchiusa in una conchiglias simbolica, motivo che si ripete in basso a conclusione dell’opera e in alto sotto la corona. L’ornamento è in argento fuso, sbalzato e cesellato e reca lo stemma di Palermo, l’aquila a volo alto, le iniziali GP di un argentiere palermitano ed è da riferire alla seconda metà del XVIII secolo[41].
Il costume da sposa era completato dai gioielli: orecchini pendenti (pindajet) d’oro rosso e bianco con pietre preziose incastonate (diamanti, smeraldi, rubini); un girocollo di velluto con pendente (kriqja e kurçetës) sempre con le stesse pietre preziose incastonate; un anello di diamanti grezzi di forma rotonda (domanti); una collana a doppio filo di pietre di granata chiusa in più punti da sfere di filigrana (rrusarji) con pendente di diversa forma contenente, in origine, una reliquia.
Scrive Maria Concetta Di Natale: “Si riferiscono alla nuova moda francese che domina l’Europa nel XVIII secolo monili e parures con rubini, opere ormai recanti il marchio delle maestranze degli orafi delle diverse maestranze di Sicilia. Solo dal 1758 venne effettivamente in uso il marchio anche sui gioielli, già più volte ingiunto, ma sino a quella data mai apposto. Il bando del bollo dell’oro venne emanato dal viceré Don Giovanni Fogliari di Aragona al tempo di Carlo III di Borbone re di Sicilia. I marchi apposti nell’oro dovevano essere gli stessi di quelli dell’argento: l’emblema della città sede del consolato e le iniziali del nome e cognome del console seguite dagli ultimi due anni della data.”[42]
Nel XVII secolo Gilles Légaré, legato alla moda parigina di Luigi XIV, idea il motivo a fiocco detto Sevignè – il cui nome deriva da madame de Sevignè – che dall’abito passa al gioiello[43].
Nel XVIII secolo negli orecchini è ancora presente il motivo del fiocco, i disegni del Légaré, pubblicati nel 1663, diventano fonte di ispirazione per un lungo periodo in diversi paesi[44].
Gli orafi siciliani lavorano, quindi, su modelli locali ed internazionali, rielaborandoli, però, in modo del tutto personale.
Bisogna precisare che i gioielli che troviamo a Piana degli Albanesi recano il marchio di argentieri palermitani. Un esempio è fornito dalla collana con diamanti e rubini caratterizzata dal motivo del fiocco centrale della Diocesi di Piana degli Albanesi. L’opera reca il marchio della maestranza palermitana e si rivela quindi un prodotto orafo palermitano della seconda metà del XVIII secolo, dopo il 1758.
La Di Natale ascrive alla stessa tipologia della collana di Piana un’analoga collana con rubini e diamanti del Victoria and Albert Museum di Londra “riferita a produzione siciliana del XIX secolo, ma da ricondurre verosimilmente alla seconda metà del XVIII”[45].
Appartenenti alla collezione del Museo di Arti e Tradizioni Popolari di Roma, provenienti dalla raccolta Reale di Piana degli Albanesi sono una collana di corallo a grani sfaccettati, alternati a vaghi aurei traforati e ad altri pieni con decorazioni in filo d’oro della seconda metà dell’Ottocento[46] ed una collana di corallo, sempre dello stesso periodo, a grani lisci alternati a vaghi aurei traforati con un pendente a stampo con decorazioni floreali a conchiglia con al centro tre ovali con smalti e sette piccoli pendenti a forma di fiore[47].
Per quanto riguarda gli orecchini una tipologia diffusa in tutta la Sicilia è quella “a navicella”.
Antonino Buttitta scrive: “In Sicilia domina il tipo a mezza luna d’oro smaltato con perline pendenti. Diffuso è pure il tipo detto a navicella che è caratteristico di tutta l’Italia. È significativo che entrambi questi motivi abbiano lontane ascendenze magico-apotropaiche”[48].
Il Perusini precisa che “di derivazione rinascimentale è un tipo di oreficeria piuttosto pesante in oro scuro, rossastro, con pietre, od anche senza per gli esemplari destinati alle persone di condizione più modesta. Sono gli orecchini tipici di Piana degli Albanesi, un tempo però largamente diffusi in Sicilia. Gioielli simili si trovano in altre regioni italiane, ma raramente, ed in esemplari che risalgono al Sei-Settecento. In sostanza si tratta di un tipo che nella penisola è scomparso da un secolo o due ma che in Sicilia si è conservato fino ad epoche relativamente recenti”[49].
Ancora Gian Paolo Gri scrive: “il corredo tradizionale dell’oreficeria siciliana offre una stratificazione che non ha rivali in nessun’altra regione d’Europa e si presenta come fondamentale termine di raffronto per la gioielleria di ogn’altra area. Nel settore degli orecchini, ad esempio, l’oreficeria siciliana presenta una ricca gamma della tipologia a cerchio e a mezza luna…a navicella con tipologie già ben documentate in età classica”[50].
La Di Natale scrive in proposito: “Questi orecchini presentano le più svariate caratteristiche della tipologia variando nella parte superiore il motivo decorativo ora a forma di velieri, ora di fiori, ora di animali, ora di figure umane dai colori sfumati di smalto per lo più bianco, rosa, blu, celeste, verde. Tra gli esemplari della seconda metà del XVIII secolo si ricordano quelli di collezione privata di Palermo, caratterizzati da delicati motivi floreali di tulipani in smalto che ripropongono usuali toni di colore rosa sfumato, già da secoli diffuso in Sicilia”[51].
Un’altra tipologia di orecchini è realizzata con girandole da tre elementi, un rosone apicale da cui si diparte la parte centrale cui si lega una serie di perline pendenti entro recinti aurei nel cui elemento terminale viene generalmente posto il marchio della città di produzione, del console con la data e le iniziali dell’orafo.
In un documento del 1782, del notaio di Piana Gioacchino Matranga, si legge: Tommaso Salerno riceve onze 3.20.2 dal U. I. D. Francesco Petta «ut dicitur due paia di circelli d’oro con perle e smalto, un paio di fibbie d’argento con sotto fibbie di ferro, un orologio d’argento senza vetro»[52].
La Di Natale sottolinea che queste opere sono molto diffuse in tutta la Sicilia della seconda metà del XVIII secolo e dell’inizio del successivo. Un importante esempio è costituito da un paio di orecchini con rubini, diamanti e perle pendenti donati da Donna Marianna Battaglia, moglie di Don Calogero Schiros al Collegio di Maria di Mezzojuso, di cui erano stati i fondatori[53].
Gli orecchini sono opera di oreficeria palermitana del 1767, come si rileva dal marchio caratterizzato dall’aquila di Palermo a volo alto e dalle iniziali del console GC seguite dalle cifre 67, Giuseppe Carlotta, che ricoprì la carica di console degli orafi della maestranza palermitana nel 1767. È, quindi, un momento successivo al 1758, anno in cui diventa tassativo l’obbligo di marchiare i gioielli in Sicilia, come avveniva già da secoli per le opere di argento[54]. Un altro paio di orecchini dello stesso tipo con rubini e perle ma privi di diamanti e con un raffinato decoro nel verso sono in una collezione privata di Palermo. Esemplari affini sono pubblicati da Giuseppe Cardella[55], si tratta di opere di orafi palermitani del 1771 e del 1797.
Alla tipologia di orecchini recanti pendenti con perline, come quelli del Collegio di Maria di Mezzojuso, sono da accostare quelli offerti in dono alla Madonna del Lume dell’omonima confraternita di Palermo[56].
Si trovano degli esemplari simili anche nella collezione Perusini, lasciata in eredità al “sovrano Militare Ordine di Malta” e depositata presso la Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone “che la custodisce e ne cura la valorizzazione”, definiti da Gian Paolo Gri “di Piana degli Albanesi”[57], “in riferimento al fatto che venivano indossati dalle donne di quel centro con i loro costumi tradizionali e non perché venissero ivi realizzati, trattandosi di opere prodotte dalla maestranza degli orafi palermitani di cui per lo più recano i marchi in pressocchè tutte le parti estreme dei pendenti”[58] In alcuni orecchini analoghi questi punzoni vengono evidenziati, come quelli che recano le iniziali del console AC seguite dalle ultime cifre dell’anno 1775[59], da identificare con quelle del console della maestranza degli orafi di Palermo Andrea Cipolla[60].
Anche a Geraci Siculo, tra i doni dei fedeli ai Santi più venerati, si trovano un paio di pendenti con perline e diversi a navicella con smalti policromi, di orafi siciliani del XVIII secolo[61]. Il primo tipo può essere confrontato con altri affini del tesoro della Madonna di Enna[62].
A proposito degli orecchini di Geraci Siculo della seconda metà del XVIII secolo, Maria Concetta Di Natale scrive: “offrono una interessante varietà tipologica, sia negli ornati floreali, che palesano la loro sicilianità nell’accesa policromia degli smalti e nella presenza di puntini che spezzano l’uniformità della pasta vitrea, sia nell’elemento iconografico culminante.Ve ne sono taluni che recano scoiattoli, fiori, cani in diverse posizioni e volatili, altri più semplici a mezzaluna, altri ancora di minuscole dimensioni, da bambina, confermando la grande diffusione che nel XVIII e XIX secolo ebbe tale tipologia di orecchini nell’isola”[63].
Per la tipologia a navicella vanno ricordati anche alcuni orecchini della collezione d’oreficeria della Fondazione Whitaker di Palermo[64]; molti esemplari facevano poi parte della smembrata collezione che Sidney J.A. Churchill raccolse in Sicilia[65].
Altri si trovano anche nelle collezioni del Museo di Arti e Tradizioni Popolari di Roma[66] tra cui, provenienti dalla raccolta Reale di Piana degli Albanesi, sono due pendenti per orecchini, della seconda metà dell’Ottocento, in filigrana d’oro con parte superiore a forma di farfalla, pendente a trofeo trattenuto da due fiori traforati ed una figura femminile centrale[67] e degli orecchini dello stesso periodo in filigrana d’oro con pendente a forma di trofeo, con al centro dei fiori oscillanti, nella parte inferiore del pendente vi sono poi cinque piccole campane[68]. Sempre nella stessa collezione si trovano degli orecchini della seconda metà dell’Ottocento, in oro con pendente a forma di cuore sospeso a due sottili catenelle, il bottone e il pendente hanno delle cornici lavorate a filigrana ed all’interno decorazioni a motivi floreali, vi è il bollo BG 19[69] e degli orecchini, dello stesso periodo, con bottone a mandorla e pendente sospeso a due elementi rigidi, cornici lavorate sempre a filigrana ed elementi oscillanti in lamina d’oro stampata e sfaccettata di forma circolare a scudo e a goccia[70].
Tra i numerosi esempi di collezione privata bisogna citare quelli con figura antropomorfa marchiati di Trapani[71]; particolarmente originali sono poi quelli caratterizzati dalla figura di una sirena bicaudata di Piana degli Albanesi[72].
Dopo il 1822, data in cui furono soppresse le maestranze e precisamente il 14 aprile 1826, Francesco I stabilisce le nuove regole per la marchiatura dell’oro. I marchi delle maestranze degli orafi e degli argentieri delle città siciliane vennero sostituiti dalla testina di Cerere seguita dalla cifra 6 che era riferita alla caratura dell’oro ed equivaleva a dodici carati[73].
Simile agli orecchini esaminati è una tipologia di pendenti, composti da rubini, granati, dal verso tutto chiuso e ornato da punzonature.
Esempi interessanti sono quelli della collezione dei gioielli del Museo di Arti e Tradizioni Popolari di Roma, come quello a tre elementi proveniente dalla raccolta Loria di Caltagirone[74]. Alcuni di questi pendenti erano caratterizzati dalla parte terminale a forma di croce come quella del tesoro della Madonna della Visitazione di Enna[75] . Appartenente alla Diocesi di Piana degli Albanesi è un bellissimo pendente la cui parte centrale è con due elementi separati da un piccolo fiocco, gemme rosse e granati[76].Una tipologia molto simile si trova tra i gioielli del tesoro di Maria SS. Della Favara a Contessa Entellina.
Molto diffusi nell’ambito dell’oreficeria popolare sono anche gli anelli. Nelle collezioni del Museo di Arti e Tradizioni Popolari di Roma si trovano quattro anelli provenienti dalla raccolta Reale di Piana degli Albanesi. Un anello, di fine Ottocento, è in oro e presenta un bottone circolare al centro con castone rotondo sporgente e piccole paste vitree incastonate[77]; un altro della seconda metà dell’Ottocento, sempre in oro, è della tipologia “a fiocco” con pasta vitrea centrale incastonata a notte e sei piccole laterali, reca il bollo e le sigle GC e BZ[78]. Sempre della seconda metà dell’Ottocento è un anello a spola in oro realizzato in filigrana con fascia centrale incisa, reca due bolli, AMG e l’altro non decifrabile[79]; vi è, infine, un anello di fine Ottocento in oro con al centro pasta vitrea ovale rossa e piccole pietre azzurre ai lati[80].
L’uso degli abiti tradizionali è, ormai, circoscritto al giorno di Pasqua, al contrario, l’abito nuziale è ancora utilizzato. Gli elementi che lo caratterizzano, a parte la ncilona, sono le maniche, in seta rossa ricamata in oro con motivi floreali, chiuse ai lati esterni da dodici fiocchi a quattro petali; lo squeri, un velo finissimo voile di seta color crema, fermato ai fianchi dal brezi e pendente dalla keza, un copricapo di velluto di colore cremisi e verde ricamato in oro e in argento con motivi floreali. Il keza copre le trecce annodate dietro la nuca ed è distintivo dello stato coniugale. Il Crispi lo descrive come “una specie di cuffia detta cheza, che corrisponde alla cheta voce greca alla dorica per chete, coma, coesaries. Essa è di velluto, e dalla testa pende dietro le spalle insieme con le trecce coprendole”[81].
In un periodo antecedente, al posto dell’abito in seta ricamato in oro, veniva indossato un abito in broccato ricamato con fili di cotone policromi su disegni floreali (pampinija), successivamente subentra il tessuto damascato.
Il costume da festa comprendeva, inoltre, un pettine (petini) ed un fazzoletto da collo (skamandili).
Per questi abiti le calzature erano, generalmente, in pelle ornate con fibbia o nastro, oppure dello stesso tessuto della gonna e con simili guarnizioni. Fanno parte della collezione Piratino un paio di scarpe in velluto di seta rosso scuro con ricami in oro a punto pieno e lanciato; le origini balcaniche sono evidenti nel decoro.Le calze erano bianche e molto fini.
Il matrimonio degli Arbëreshë è un fattore sociale di rilievo e viene celebrato con la massima solennità tra i colori del ricco costume femminile tradizionale e suggestive cerimonie orientali.
Per andare a messa o in processione veniva, invece, indossato, il cosiddetto abito di mezza festa. Esso è composto dalla gonna ad una o due fasce (xhëllona me një o me dy kurorë), dal gippone (xhipuni), da un numero inferiore di fiocchi, rispetto all’abito di festa e dalla mantellina.
Vi è poi l’abito del lutto che veniva usato dalle donne sposate e, senza gioielli, ma con il solo brezi, il venerdì santo durante le funzioni liturgiche e per la processione del Cristo morto. Esso era costituito da una gonna di taffetas nero (fodhija) con l’orlo listato dal velluto dello stesso colore, dal gippone nero di velluto o di seta e da un merletto di pizzo o seta. Fondamentale è un ampio manto (mënti) di taffetas nero a forma di mezzaluna che, fermato dal keza sul capo, avvolgeva il corpo[82].
Il giorno del venerdì santo le donne nubili indossavano, invece, la gonna damascata con il manto nero raccolto su un fianco.
Nelle cerimonie liturgiche della settimana santa l’abito è simbolo del profondo legame che intercorre tra le sue parti e la liturgia bizantina.
Sempre nel Catalogo illustrato della Mostra Etnografica, il Pitrè[83] elenca le parti di due costumi esposti: un costume di ragazza siculo-albanese di Piana dei Greci, nel momento di andare a nozze e un costume di gran festa della donne siculo-albanesi di Piana dei Greci:
a) La zilona, elegantissima veste di seta rossa ricamata in oro;
b) Due mënghëtë, maniche di seta, egualmente ricamate in oro, entro le quali vengono raccolte le maniche della camicia;
c) Il craxëtë, bustino di seta del medesimo colore della veste, pur esso ricamato in oro;
d) La lignë, lunga ed elegante camicia di tela con larghissime maniche, le quali con pieghe minute vengono raccolte entro i mënghëtë, e con collare molto largo: maniche e collare a ricami e merletti;
e) N. 12 scocatë di mbëdiet, nastri di colore diverso dal costume, e con ricami in oro ed in argento;
f) Scocctëte jisst, nastro del medesimo genere al petto;
g) Plexatori, nastro da intrecciare i capelli;
h) Schepi, velo;
i) Checca, specie di cuffia ricamata in oro;
j) Brezo o bresi, grande cintura con iscudo d’argento e qua e là dorato;
k) Scpàgherë, mantello di seta celeste ricamato in oro.
Nel suo elenco il Pitrè elenca anche i seguenti gioielli che erano esposti insieme ai vestiti:
a) Scudo di cintura siculo-albanese di Piana dei Greci, rappresentante S. Giorgio che uccide il dragone;
b) Cintura siculo-albanese di Piana dei Greci, con la figura della Immacolata sullo scudo;
c) Collane siculo-albanesi con fiocchi d’oro, dai quali pendono medaglie con smalto e filigrana.[84]
Il costume di Piana degli Albanesi, nel corso degli anni, ha suscitato ammirazione e consenso.
Nel concorso di Venezia dell’8-9 settembre del 1928, al gruppo di Piana venne assegnato il primo premio, essendo stato riconosciuto il loro costume, tra tutti i costumi regionali, il più ricco per disegno, stoffa e colori.
Il 7 gennaio del 1930 a Roma si è svolta l’Adunata del Costume italiano, una delle più importanti manifestazioni del folklore del paese, organizzata in occasione delle nozze reali del principe Umberto di Savoia e la principessa Maria del Belgio. Tra gli “elementi” caratteristici della Sicilia sfilavano le donne di Piana dei Greci e i Canti e le danze albanesi.
“Per la prima volta nella storia d’Italia e in un Corteo si riusciva a rappresentare le costumanze e le tradizioni di tutte le regioni di allora, comprese le isole dell’Egeo, l’Eritrea e la Libia”[85].
Tra gli artisti che sono rimasti affascinati dal costume di Piana degli Albanesi vi è Ettore De Maria Bergler (1850-1938) che in Donna di Sicilia in costume di Piana degli Albanesi – un olio su tela del 1933 esposto alla Civica Galleria d’Arte Moderna “Empedocle Restivo” di Palermo – trasferisce la grazia decorativa della sua pittura e ne fa un’opera di impianto plastico fermissimo addolcito dal delicato accordo cromatico[86]. La gonna presenta le tre caratteristiche fasce lavorate con il tombolo ed è fermata dal brezi con l’immagine dell’Immacolata, il collare ha i polsini ricamati e in testa vi è il fiocco tradizionale.
L’abito è, probabilmente, nella versione invernale data la sobrietà dei colori.
Antonietta Raphaël Mafai (1895-1975) negli anni cinquanta fa un viaggio in Sicilia e, nel 1952, immortala, in un olio su tavola, una donna di Piana degli Albanesi, Compagna Assunta, e come scrive lei stessa sul retro del quadro: “L’ho dipinta mentre mi raccontava il tragico evento dell’eccidio di Portella”.
L’attenzione è tutta rivolta alla figura femminile, alle sue mani grandi e nervose, “ogni quadro della Raphaël è oggi un raggiungimento di poesia”[87].
La donna indossa l’abito giornaliero, ancora oggi in uso anche se raramente, che è costituito da un’ampia gonna, lunga fino ai piedi, di panno o cotone nero, da un busto di velluto o di raso di vario colore, nero, viola, bleu, verde ecc., con ampie maniche strette ai polsi, da una mantellina bianca d’estate e celeste d’inverno, entrambe bordate da nastro di seta bianca. La donna raffigurata indossa un manto in nero, in segno di lutto.
Ancora oggi le tradizioni di Piana degli Albanesi sono radicatissime tra la gente del paese, sempre attenta alla memoria storica, e richiamano tantissimi turisti, curiosi e studiosi da tutto il mondo.
[1] A. Buttitta, ad vocem Costume, tradizione popolare, in Enciclopedia Universale dell’Arte, Novara 1981, col. 43.
[2] S. Tramontana, Vestirsi e travestirsi in Sicilia, Palermo 1993, p. 15.
[3] G. Portelli – G. Giallongo (a cura di), Coprire/Coprirsi dall’infante all’adulto la copertura del corpo in Sicilia, catalogo della mostra, Palazzo Spadaro – Scicli 28 marzo-6 maggio 2004, Scicli 2004, p. 10.
[4] R. Barthes, Sistema della Moda, Paris 1967, trad. it. Di L. Lonzi, Torino 1970, p. 246.
[5] C. Giorgetti, Manuale di Storia del Costume e della Moda, Firenze 1992, p. 8.
[6] F. de Saussure, Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Bari 1967, p. 27.
[7] R. Barthes, Storia e sociologia del vestito, in ID, Scritti, società, testo, comunicazione, a cura di G. Marrone, Torino 1998, p. 65.
[8] A. Buttitta, Gli ex-voto di Altavilla Milicia, Palermo 1983, p. 15.
[9] A. Buttitta, introduzione in Tre secoli di moda in Sicilia. Mostra di abiti e accessori dal XVIII al XX secolo. Collezione Gabriele Arezzo di Trifiletti, catalogo della mostra, Palazzo Asmundo, Palermo, 27 maggio-6 giugno 1991, Palermo 1991, p. IX; A. Buttitta, L’abito come segno, in «Nuove Effemeridi», n. 19, 1992/III, p. 61.
[10] R. Barthes, Storia e sociologia…, in ID Scritti…, 1998, p. 66; R. Barthes, Storia e sociologia del vestiario. Osservazioni metodologiche, in La storia e le altre scienze sociali, a cura di F. Braudel, Roma-Bari 1974, pp. 136-152.
[11] P.Bogatyrëv, Semiotica della cultura popolare, a cura di Maria Solimini, trad. it. Di R. Bruzzese, Verona 1982, p. 86.
[12] Cfr. M. Baldini (a cura di), Semiotica della moda, Roma 2005, pp. 18-19.
[13]P.Bogatyrëv, Semiotica…, 1982, p. 128.
[14] A. Buttitta, ad vocem Costume…, 1981, col. 43.
[15] R. La Duca, Il vestire negli ultimi tre secoli, in «Nuove Effemeridi», n. 19, 1992/III, p. 60.
[16] Descrizione di costumi e utensili siciliani mandati alla Esposizione Industriale Italiana di Milano 1881 – Gruppo VIII – Classe 50° – per cura del Municipio di Palermo, a cura di G. Pitrè, in «Nuove Effemeridi Siciliane» – s. 3 XI, p. 36.
[17] A. Tavella, Cantuscio e jippuni giammèrica e quasuni. Abbigliamento popolare e aristocratico nelle collezioni del Museo Pitrè, Palermo 2006, p. 8.
[18] Il passo è riportato in A. Tavella, Cantuscio…, 2006, p. 8.
[19] Cfr. G. Bonomo, Presentazione del Catalogo della Mostra Arte Popolare in Sicilia. Le tecniche, i temi, i simboli, a cura di G. D’Agostino, Palermo 1991, p. 6; J. Vibaek, La mostra etnografica, in «Nuove Effemeridi», anno IV, n. 16, 1991/IV, p. 92.
[20] G. Pitrè, Avvertenza in Catalogo illustrato della Mostra Etnografica Siciliana per l’Esposizione Nazionale di Palermo, con disegni di Aleardo Terzi, Palermo 1892, in La Esposizione Nazionale 1891-1892, con testi di U. Di Cristina e B. Li Vigni, Palermo 1988, p. 197.
[21] Catalogo illustrato della Mostra Etnografica Siciliana, ordinato da G. Pitrè, Palermo 1892, rist. Palermo 1968 con intrd. di A. Uccello.
[22] Palermo e l’Esposizione Nazionale dal 1891-1892, Fratelli Treves, Milano. Sono 40 numeri di cui il primo uscì nel febbraio 1891 e l’ultimo il 7 giugno 1892, dove era descritta la cerimonia di chiusura; L’Esposizione Nazionale di Palermo 1891-1892, Sonzogno, Milano. Sono 25 dispense che cominciano con il numero che descrive la cerimonia di apertura il 15 novembre 891 e chiudono a fine mostra. All’interno dei periodici il titolo riportato è L’Esposizione illustrata di Palermo 1891-92 e spesso si trova così citato.
[23] Cfr. M. La Barbera, Il costume tradizionale di Piana degli Albanesi, in Progetto LABORA. Quaderno della ricerca sul territorio, a cura di G. Aiello, Santa Flavia (PA) 2008, II, pp,. 227-236.
[24] Cfr. R. Orsi Landini, L’abito per il corpo e il corpo per l’abito, in L’abito per il corpo il corpo per l’abito. Islam e Occidente a confronto, catalogo della mostra, Museo Stibbert 1998, Firenze 1998, p. 16.
[25] R. Levi Pisetzky, Il costume e la moda nella società italiana, Torino 1978, p. 185.
[26] M. C. Di Natale, Dal collezionismo al museo, in La pittura dell’Ottocento in Sicilia, a cura di M. C. Di Natale, Palermo 2005, p. 26; per Andrea D’Antoni cfr. T. Crivello, Andrea D’Antoni, Pittore siciliano dell’Ottocento , tesi di specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna della LUMSA, relatore Prof. Vincenzo Abbate, anno acc. 2001-2002.
[27] A. Buttitta, ad vocem Costume…, 1981, col. 48.
[28] G. Pitrè, Costumi, in Catalogo illustrato…, 1988, p. 199.
[29] A. A. Bernardy in E. Calderini, Il Costume Popolare in Italia, Milano 1934, p. 56.
[30] G. Vuillier, La Sicile, Paris 1896, p. 156. “…è molto bella nel suo costume antico, è una magnifica regina che incede”.
[31] Ibidem, p. 159. “…la maggior parte di questi abiti viene trasmessa di padre in figlio, vengono religiosamente conservati nelle famiglie; sono già serviti a molte generazioni”.
[32] G. Pitrè, Costumi, in Catalogo illustrato…, 1988, p. 199.
[33] V. Abbate, scheda n. 47 in Vulgo dicto lu zoppo di Gangi, catalogo della mostra, Gangi, Chiesa del SS. Salvatore – Palazzo Buongiorno – Chiesa Madre – Chiesa di S. Paolo, 19 aprile – 1 giugno 1997, Gangi 1997.
[34] A. Tavella, Cantuscio…, 2006, p. 29.
[35] G. Pitrè, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, in Biblioteca delle Tradizioni Popolari siciliane, Palermo 1913, pp. 60-63.
[36] G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol.I, Palermo 1889, p. 429-430.
[37] Z.G. Chiaramonte, Il “Cintiglio” delle albanesi di Sicilia, in «Il Pitrè». Quaderni del Museo Etnografico Siciliano, n. I, Gen-Apr 2000, p. 16.
[38] L’ornamento prezioso. Una raccolta di oreficeria popolare italiana ai primi del secolo, catalogo della mostra a cura di P. Ciambelli, Roma-Milano 1986, scheda n. 229, p. 169, tav. 46.
[39] Z. G. Chiaramonte, Il “Cintiglio”…, 2000, p. 16.
[40] M. C. Di Natale, scheda n. II, 122, in Ori e argenti di Sicilia, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Trapani Museo Regionale Pepoli, 1 luglio-30 ottobre 1989, Milano 1989, pp. 267-269, fig.122.
[41]M. C. Di Natale, scheda n. II , 210, inOri e argenti…, 1989, p. 327, fig. 210.
[42] M. C. Di Natale, Gioielli di Sicilia, Palermo 2000, p. 223; cfr. pure S. Barraja, La maestranza degli orafi e degli argentieri di Palermo, in Ori e argenti…, Milano 1989, pp. 48-50, S. Barraja, I marchi degli argentieri ed orafi di Palermo, dal XVII secolo ad oggi, saggio introduttivo di M. C. Di Natale, Milano 1996, pp. 48-50.
[43] E. Steingraber, L’arte del gioiello in Europa dal Medioevo al Liberty, 1965.
[44] J. Anderson Black, Storia dei gioielli, a cura di F. Sborgi, Novara 1973, ed. 1986, p. 193.
[45] M. C. Di Natale, Gioielli…, 2000, p. 242; cfr. S. Bury, Jewellery Gallery. Summaris catalogue, Victoria and Albert Museum, London 1982, case 4, board B n. 18, inv. M 13 1942.
[46] L’ornamento prezioso…, 1986, n. 95, p. 155.
[47]L’ornamento prezioso…, 1986, n. 96, p. 155.
[48] A. Buttitta, Oreficeria popolare, in Enciclopedia Universale dell’Arte, 1953, vol. X, p. 170
[49] G. Perusini, Tipologia dell’oreficeria tradizionale siciliana, in Demologia e folklore. Studi in memoria di Giuseppe Cocchiara, Palermo 1974, pp. 309-310.
[50] G. P. Gri-N. Cantarutti, La collezione Perusini, ori, gioielli, amuleti tradizionali, Udine 1998, p. 64.
[51] M. C. Di Natale, Gioielli…, 2000, p. 246; cfr. M. C. Di Natale, scheda I, 46, in Ori e argenti…,1989, pp. 109/110.
[52] Archivio di Stato di Palermo, Notaio Gioacchino Matranga di Piana, St. VI, vol. 29512 (10 bastardello), c. 110 r. e v.
[53] M. C. Di Natale, Oreficeria a Mezzojuso, in Arte sacra a Mezzojuso, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Palermo 1990, p. 144; cfr. M. C. Di Natale, Gioielli…, 2000, p. 242.
[54] M. C. Di Natale, Oreficeria…, 1990, p. 144.
[55] G. Cardella, Appunti, gioielli colti, in “Sicilia tempo”, an. XXIV, n. 250, gennaio 1998, nn. 8-9.
[56] M. C. Di Natale, scheda V, 50, tav. 55, in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo. Storia e arte, a cura di M. C. Di Natale, Palermo 1993, p. 251.
[57] G.P. Gri- N. Cantarutti, La collezione…, 1998, pp. 30-31, nn. 1-2.
[58] M. C. Di Natale, Gioielli…, 2000, p. 243.
[59] G. Cardella, I marchi dell’oro nel Settecento e nell’Ottocento in Sicilia, Palermo 1983, scheda A, 1.
[60] S. Barraja, I marchi degli argentieri ed orafi di Palermo, dal XVII secolo ad oggi, saggio introduttivo di M. C. Di Natale, Milano 1996, p. 79.
[61] M. C. Di Natale, I tesori nella contea dei Ventimiglia. Oreficeria a Geraci Siculo, Caltanissetta 2006, p. 48.
[62] M. Accascina, Oreficeria siciliana. Il tesoro di Enna, in «Dedalo», agosto, 1930; cfr. M. C. Di Natale, I monili della Madonna della Visitazione di Enna, con un contributo di S. Barraja, Enna 1996.
[63] M. C. Di Natale, I tesori…, 2006, p. 49.
[64] R. Giuffrida-R. Chiovaro, La villa Whitaker a Malfitano, Palermo 1986, pp. 86-87.
[65] Peasant Art in Italy, in «The Studio», n.s. 1913, introduzione di Sidney J.A. Churchill, tav. 229a, figg. 230-237, tav. 244a.
[66] M. G. Aurigemma, scheda n. I, 82, in Ori e argenti…, 1989, pp. 129-131.
[67] L’ornamento prezioso. Una raccolta di oreficeria popolare italiana ai primi del secolo, catalogo della mostra a cura di P. Ciambelli, Roma-Milano 1986, n. 243, p. 171.
[68] L’ornamento prezioso…, 1986, n. 245, p. 171.
[69] L’ornamento prezioso…, 1986, n. 277, p. 175.
[70] L’ornamento prezioso…, 1986, n.278, p. 175.
[71] M. C. Di Natale, scheda n. I, 46, in Ori e argenti…, 1989, p. 109.
[72] M. C. Di Natale, Gioielli…, 2000, p. 247.
[73] S. Barraja, La maestranza…, in Ori e argenti…, 1989, p. 371; cfr. S. Barraja, I marchi…, 1996, p. 53.
[74] L’ornamento prezioso…, 1986, n. 314, p. 177.
[75] M. C. Di Natale, I monili della Madonna…, 1996, p. 72, fig. 117.
[76] M. C. Di Natale, Gioielli…, 2000, pp. 243-244.
[77] L’ornamento prezioso…, 1986, n. 129, p. 158.
[78] L’ornamento prezioso…, 1986, n. 123, p 158.
[79] L’ornamento prezioso…, 1986, n. 145, p. 159.
[80] L’ornamento prezioso…, 1986, n.135, p. 158.
[81] G. Crispi, Memorie storiche di talune costumanze appartenenti alle colonie greco-albanesi di Sicilia, Palermo 1853, pp. 25-26, in I. Elmo-E. Kruta, Ori e costumi degli albanesi, vol. I, Castrovillari, p. 174.
[82] I. Elmo-E. Kruta, Ori.., pp. 673-681.
[83] G. Pitrè, Costumi, in Catalogo illustrato…, 1988, p. 199.
[84] Ibidem, p. 202.
[85] F. S. Oliveti, Corteo dei costumi d’Italia, in Il Pitrè, Quaderni del Museo Etnografico Siciliano, Palermo 2006, p. 49.
[86] Cfr. Civica Galleria d’Arte Moderna Empedocle Restivo. Catalogo delle opere a cura di A. Purpura,, Palermo 1999, p. 72; Ettore de Maria Bergler, catalogo della mostra, Palermo Galleria d’Arte Moderna Empedocle Restivo maggio 1988.
[87] L. Bigiaretti, Una fantasia inquieta, 1960, in Raphaël, Catalogo della mostra, La Nuova Pesa, Roma, 25 ottobre – 8 novembre 1960. Cfr. Antonietta Raphaël. Un lungo viaggio nel ‘900, catalogo della mostra, Nuvole Galleria, Palermo 3 febbraio-6 aprile 2007, Palermo 2007; S. De Dominics, Antonietta Raphaël Mafai. Un’artista non conforme, Selene Edizioni 2006.