Museo Poldi Pezzoli

di Ivana Bruno

Case Museo

Milano,  Museo Poldi Pezzoli

Un collezionista di stili

Nel 1879, pochi giorni dopo avere acquistato il Compianto sul Cristo morto di Botticelli, Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879)  morì improvvisamente nel suo studiolo, il Gabinetto dantesco. Questo era l’ambiente più piccolo e ritirato di un “appartamento particolare”, da lui così chiamato e creato in un’ala separata del seicentesco palazzo di famiglia per ospitare la sua collezione.

Il nobile milanese, che aveva ereditato la vocazione al collezionismo dai genitori, e soprattutto dalla madre discendente dalla celebre dinastia dei Trivulzio, mise insieme una raccolta di opere d’arte del Cinque e Settecento, di cui una parte rilevante era rappresentata da oggetti di arte decorativa. Il suo intento, fin dall’inizio, era quello di lasciare, dopo la morte, i preziosi beni accumulati nella sua dimora “ad uso e beneficio pubblico”.

Il Gabinetto dantesco era destinato ad accogliere i suoi tesori di arte applicata – ori, smalti limosini, porcellane di Meissen e vetri di Murano – che, stipati in vetrine ricavate nelle nicchie dei muri, si confondevano nella luce colorata delle vetrate e fra le tinte brillanti e l’oro delle decorazioni pittoriche alle pareti, vere e proprie pagine di un codice miniato. Il programma iconografico era ispirato alla vita e all’opera di Dante, il grande poeta esule del Trecento nel quale Gian Giacomo, ardente patriota che era stato costretto ad abbandonare la sua città dopo le cinque giornate di Milano, si identificava. Le scene e i brani desunti dalla Divina Commedia offrivano, infatti, materia sufficiente per esaltare il trionfo delle arti e della poesia nel Medioevo, che a quell’epoca erano considerati un modello ideale per la ricerca di una nuova identità nazionale italiana. Questa sala fu l’unica a salvarsi dai bombardamenti della seconda guerra mondiale ed evoca ancora oggi lo spirito del collezionista, nuovo principe del Rinascimento, che incarnò il culto della bellezza e dell’armonia interiore proprio di quell’età passata, circondandosi di capolavori del Cinquecento e del Settecento veneto, ritenute le “età dell’oro” dell’arte italiana.

 

Nelle scelte delle opere da acquistare si lasciò guidare da consiglieri di grande competenza, come Giovanni Morelli (1816-1891), che fu anche il ritrattista di famiglia, Giuseppe Molteni (1800 – 1867), conservatore della Pinacoteca di Brera, e Giuseppe Bertini (1825-1898), pittore, antiquario e professore dell’accademia milanese.

Il collezionista sistemò con cura le raccolte in ambienti concepiti per ricreare in ognuno il clima e il carattere di un’epoca diversa, da lui personalmente rivisitata. Per questo motivo si affidò ai migliori artigiani e decoratori lombardi, tra i quali il restauratore Luigi Canevaghi, i pittori Giuseppe Bertini, Luigi Scrosati (1815-1869) e Giuseppe Spelluzzi (1827-1890), che, rifacendosi alle tecniche antiche, reinterpretarono il passato e lo reinventarono con grande fantasia. Così realizzò la saletta degli stucchi alla maniera del Settecento, arredò in stile neogotico la sala d’armi (oggi aperta in una nuova veste ideata da Arnaldo Pomodoro), rivestì con boiseries in ebano secondo il gusto lombardo del Cinquecento la “sala nera”, e adottò lo stile rinascimentale per il salone dorato (che non vide completato), dove furono esposti su cavalletti il Ritratto di donna del Pollaiolo (acquistato come opera di Piero della Francesca, i due dipinti del Botticelli, l’Imago Pietatis di Giovanni Bellini) ed altri capolavori del Cinquecento. In questo allestimento, come nelle altre case-museo italiane, furono prese a modello – oltre l’esempio della dimora del conte Alexandre du Sommerard nel parigino Hotel de Cluny aperto nel 1843, che Gian Giacomo aveva visitato in uno dei suoi soggiorni nella capitale francese – anche le esposizioni universali, nei cui padiglioni gli oggetti e gli arredi erano esposti in modo da ricomporre una immaginaria vita del passato.

 

Due anni dopo la morte del fondatore, il museo fu aperto da Giuseppe Bertini, suo primo direttore, che assecondando la volontà di Gian Giacomo mantenne intatto l’aspetto e incrementò le collezioni con l’acquisto di dipinti (opere di Guardi, di Tiepolo di Alessandro Magnasco e La Musa Tersicore di Cosmè Tura, in origine nello studiolo di Belfiore di Ferrara) e di numerosissimi tessuti antichi, tra i quali il ricamo per cappuccio di piviale su cartone di Botticelli e un arazzo fiammingo del Quattrocento. Il successore Camillo Boito (1836-1914) cambiò invece la fisionomia dell’appartamento per dare più rilievo alla pinacoteca, da lui ordinata per epoche e scuole. In seguito le collezioni continuarono a crescere, grazie ad una serie di acquisti, ma anche a numerose donazioni da parte di privati, avvenute soprattutto a partire dal secondo dopoguerra (orologi meccanici della collezione Bruno Falck, raccolta di pizzi e ricami, porcellane venete del sec. XVIII)

Bibliografia

A. Mottola Molfino, Dal privato al pubblico: per una storia delle Fondazioni artistiche in Italia, in Dalla casa al museo, capolavori da fondazioni artistiche italiane, catalogo della mostra, Electa, Milano 1981, pp. 7-18.

A. Mottola Molfino, Storia del museo, in Museo Poldi Pezzoli, Electa, Milano 1982, pp. 15-61.

A. Mottola Molfino, A. Di Lorenzo, A. Zanni, Il Museo Poldi Pezzoli a Milano. Guida per il visitatore, Umberto Allemandi, Torino 1999.

L. M. Galli Michero (a cura di),  Lo studiolo del collezionista restaurato “Quaderni di studi e restauri”, Il Gabinetto dantesco del Museo Poldi Pezzoli, IntesaBci/Museo Poldi Pezzoli, Milano 2002.